BIOGRAFIA

Danilo Cubattoli nasce a San Donato in Poggio, nel Chianti fiorentino, il 24 settembre 1922, e fin da piccolo manifesta la sua natura estroversa, profondamente legata alla terra e alla vita di campagna. Cresciuto in una famiglia molto devota, Danilo frequenta la chiesa ed è chierichetto, ma nello stesso tempo si distingue per un carattere chiassoso ed a volte indisciplinato. Fin dall’età di dieci anni alterna la scuola al lavoro presso l’officina del fabbro ferraio del paese, e la sua passione è quella di correre in bicicletta. I vecchi del paese lo ricordavano come un bambino iperattivo e instancabile.

Nel 1935, quando ha 13 anni, muore di polmonite sua mamma Adele. È una perdita molto dolorosa che cambierà la sua vita, perché dopo quella tragedia Danilo deciderà di andare in seminario e diventare prete, riscoprendo il messaggio e l’insegnamento di sua mamma per l’amore verso gli altri, che prima di allora non aveva ascoltato.

IL SEMINARIO

Nel periodo del Seminario maggiore, Danilo soffre il fatto di non poter incontrare i ragazzi del popolo di San Frediano (divieto imposto ai seminaristi). Impressionato dalla povertà e dalla fame della gente del quartiere negli immediati anni del dopoguerra, ogni giorno raccoglie il pane avanzato in refettorio e lo distribuisce ai ragazzi di San Frediano, con la complicità di due compagni più vicini a lui, Renzo Rossi e Lorenzo Milani, e calando un cestino dalla finestra della sua camera, sovvertendo alle regole di comportamento del seminario.

Alla fine del 1943, quando era un giovane seminarista di 21 anni, Danilo chiede e ottiene di partecipare al programma del Cardinale Elia Dalla Costa per proteggere e salvare i partigiani e le famiglie ebree, perseguitate dopo la caduta di Mussolini. A tale fase appartiene l’episodio dei sei bambini ebrei nascosti a Montebuoni, a sud di Firenze, che salva dalla deportazione, mostrando  grande coraggio e abilità nel gestire situazioni molto rischiose.

L’11 luglio 1948 Danilo Cubattoli, chiamato “il Cuba” dai compagni di seminario, viene ordinato sacerdote dal Cardinale Elia Dalla Costa, e da allora sarà conosciuto da tutti come don Cuba. L’anno prima, nel 1947, Danilo e Renzo Rossi, compagni di seminario, avevano accolto l’invito di don Gonnelli, parroco di San Frediano, di aiutare Ghita Vogel nella gestione della colonia estiva di San Frediano, entrando in contatto con i ragazzi poveri del popolare rione fiorentino, e anche con le famiglie nobili della città, che a quel tempo si dedicavano ad opere di bene in favore della popolazione in difficoltà.

UN SACERDOZIO DA STRADA

Una volta ordinato sacerdote, don Cuba convincerà il Vescovo a dispensarlo dal tenere una parrocchia per potersi dedicare alla gente emarginata e lontana dall’insegnamento cristiano, cosa che non avrebbe potuto fare se relegato alla vita pastorale in chiesa. In cambio di questa concessione, Dalla Costa gli ordina di compilare un report delle sue giornate fra la gente, e di portarglielo in arcivescovado una volta alla settimana, restando a pranzo con lui.

Con la sua celebre frase: “O bischero, guarda che io mi son fatto prete proprio per quelli che i preti non li possono vedere!” don Cuba si introduce, con la sua tonaca nera, negli ambienti più fortemente anticlericali della città, senza il timore di avere uno scontro, ma riuscendo a stabilire un profondo legame e una grande amicizia con questa parte di popolazione. La sua opera evangelica nelle strade dei quartieri più difficili arrivò all’orecchio dell’allora Segretario di Stato Vaticano, Card. Montini (futuro papa Paolo VI) che scrisse una missiva a Elia Dalla Costa per avere maggiori informazioni sul coraggioso operato del giovane sacerdote. Nei primi anni di sacerdozio, don Cuba inizia a frequentare il cinema Universale, al Pignone, e capisce subito le potenzialità del cinematografo come nuovo sistema di comunicazione sociale.

L’OPERA VERSO GLI ALTRI

Per appassionare i ragazzi di San Frediano e avviare una nuova opera educativa, poiché il costo del biglietto per vedere un film al cinema a quel tempo non era da loro sostenibile, trovò il modo di fare cinema gratis coinvolgendo un ragazzo del quartiere, che per lavoro consegnava le pellicole alle varie sale della città e le riprendeva dopo la proiezione. Don Cuba lo convinse a farsele “prestare” prima di riconsegnarle ai distributori, e con un proiettore cinematografico avuto in prestito organizzò una piccola sala di proiezione nella canonica di una chiesa del rione.

Quando i distributori vennero a saperlo, poiché di fatto non vi era concorrenza con il circuito ufficiale di distribuzione, furono loro stessi a prestargli le pellicole. Anzi, in molti casi gliele regalavano, così che nel tempo don Cuba costituì una importante cineteca, che oggi si trova a Oppido Lucano e costituisce il fondo Cubattoli della cineteca lucana. Con lo stesso metodo adottato per i ragazzi di San Frediano, poté fare il cinema in carcere, e fu il primo a farlo, in Italia.

Nel 1952, accorgendosi che i nuovi campioni dello sport (dopo la pausa bellica) sono diventati un modello da seguire per la nuova generazione, ed essendo fornito lui stesso di notevoli doti atletiche, don Cuba decide di dedicarsi ad alcune discipline sportive (sci, nuoto, boxe, ciclismo, alpinismo) come esempio per coinvolgere i giovani e trasmettere loro i valori della disciplina e del divertimento. Proprio in quell’anno li sfida ad una corsa ciclistica da Firenze a San Casciano e ritorno, facendosi allenare dall’amico Bartali e dando agli sfidanti ben 10 minuti di vantaggio. La clamorosa vittoria a quella corsa, disputata indossando la tonaca nera, gli darà notorietà a livello nazionale, e la vicenda finirà sulla copertina del Corriere della Domenica. Il cardinale Elia Dalla Costa, viste le doti umane e caratteriali di don Cuba, decide di farlo cappellano al carcere fiorentino di Santa Verdiana. Avrà inizio, da lì, un’altra straordinaria opera santa di don Cuba che durerà tutta la vita.

A seguito della nuova legge sull’affidamento familiare, che aveva lo scopo di far trovare una famiglia ai bambini orfani o ai ragazzi usciti dal carcere minorile, don Cuba ebbe l’idea di costituire una casa-famiglia (la prima in Italia) convincendo Ghita Vogel, già impegnata nel sociale insieme a Fioretta Mazzei ed altre nobili signore, ad acquistare un appartamento in San Frediano come sede della casa famiglia. Per organizzare le vacanze estive ai ragazzi del quartiere di San Frediano che non avevano possibilità di andare al mare, don Cuba ottiene in gestione dal demanio una spiaggia a Vada (Li) con relativa pineta per farne un campeggio, che dal secondo anno venne fornito di baracche in legno e una piccola chiesa prefabbricata.

Fra la primavera e l’estate del 1954 don Cuba affronta, insieme all’amico Steve (Stefano Ugolini, un ragazzo di San Frediano) un rocambolesco viaggio in Africa in sella ad una moto, che lo porterà, con l’attraversamento di dieci stati e tre continenti, a raggiungere il Kilimangiaro e dire una messa dalla cima della più alta montagna d’Africa in onore di tutti i lavoratori del mondo.

Alternando la sua opera fra i ragazzi della casa-famiglia e quelli del carcere, don Cuba fu protagonista di un episodio avvenuto durante l’alluvione di Firenze del 1966. Mentre l’Arno straripa e le sue acque inondano le vie del centro, don Cuba, già cappellano del carcere, raggiunge il penitenziario cittadino e convince le guardie ed i secondini ad aprire le celle per liberare i carcerati e salvarli da una morte certa, già che in quel punto della città il livello dell’acqua superò i cinque metri di altezza e tutte le celle del primo e secondo livello furono sommerse. Ai carcerati don Cuba chiese di rientrare spontaneamente dopo una settimana, e nel frattempo prestare aiuto alla popolazione alluvionata. È dato certo che tutti i carcerati rientrarono in cella. Immediatamente dopo l’alluvione, don Cuba riprese a fare cinema in carcere, nelle parrocchie e in San Frediano. Poiché la produzione cinematografica era sempre più ricca e varia, capì che era giunto il momento di selezionare i film in base ad una scelta fra quelli educativi e quelli diseducativi. Per fare questo, decise di frequentare a Roma i corsi di cine-lettura di Padre Nazzareno Taddei, noto critico cinematografico ed insegnante al centro sperimentale di cinematografia di Roma. Dalla fine degli anni Sessanta don Cuba avviò i primi cineforum nei circoli e nelle parrocchie. Dette quindi inizio alle sue celebri lezioni di lettura cinematografica, favorendo la consapevolezza nei giovani appassionati sulle potenzialità comunicative del cinema e sulle capacità di giudizio critico. Una vera opera di formazione culturale nel campo delle comunicazioni sociali che attirò ben presto l’attenzione degli addetti ai lavori. Molti registi e produttori iniziarono ad interessarsi alle sue iniziative. Dagli anni Settanta don Cuba entrò a far parte dell’A.C.E.C. (Associazione Cattolica Esercenti Cinema), divenendo prima delegato diocesano e poi Regionale. Rifiutò la carica nazionale per non doversi trasferire a Roma. Agli inizi degli anni Ottanta, insieme a don Giorgio Bruni e con la collaborazione di don Nazareno Taddei ed alcuni registi cinematografici (in particolare Ermanno Olmi ed Ettore Scola) costituì il premio “Ragazzi&Cinema” presso la mostra del cinema di Venezia, premiando il film che un’apposita giuria di giovani lo aveva giudicato il più adatto ad un pubblico di ragazzi. Don Cuba continuerà la sua opera di cappellano nel nuovo carcere di Sollicciano, dopo il trasferimento, a metà degli anni Ottanta, dal vecchio penitenziario fiorentino. Resterà in contatto con i carcerati fino agli ultimi mesi della sua vita, ovvero fin quando la salute gli permetterà di muoversi. Questo straordinario rapporto con la popolazione detenuta è testimoniato da oltre settecento lettere, una più commovente dell’altra, che dalla metà degli anni Sessanta gli scriveranno i suoi “ragazzi del carcere”.